Inverigo, il Paese delle Ville di Delizia: un nome, un destino grazie alla sua particolare posizione collinare, a metà tra Milano, Como e Lecco. Ponte ideale tra la campagna e l’indaffarata città, Inverigo è divenuta ben presto nota quale ameno luogo di villeggiatura dei tanti nobili milanesi. Conosciuta anche come Balcone della Brianza, il paese sorge sull’ultima collina erbese, un verde limen tra l’antico e silenzioso mondo della campagna e la caotica e popolata pianura. Molte delle ville qui sorte erano collegate tra loro da brevi passeggiate tutt’oggi percorribili, uno dei quali è il famoso itinerario dei bachi da seta: dalla produzione nella frazione Pomelasca, alla vendita in Piazza Mercato, davanti allo storico Santuario di Santa Maria della Noce. Proprio qui, percorrendo al contrario la via dei bachicultori, inizia il nostro viaggio.
Lasciato alle spalle il Santuario di Santa Maria della Noce, dove l’arcivescovo di Milano, Schuster, voleva si racchiudesse “tutto ciò che dal punto di vista storico ed artistico sembra veramente interessante”, superato il famoso viale dei Cipressi, simbolo della cittadina di Inverigo in cui ci troviamo, eccoci mentre ci approssimiamo a Villa Sormani di Pomelasca.
“Pomelasca non è una casa, una villa o un palazzo. E neppure una collina o un villaggio”. Così scriveva in una calda sera dell’estate del 1953 il conte Alberto Sormani di Missaglia.
Cos’è Pomelasca? Pomelasca è una promessa: nessuna indicazione, nessun cartello. Occorre domandare. Tutti ne conoscono il nome che spesso ricorda ore felici. Ormai c’è il navigatore, certo, ma in alcuni casi, e questo è uno, vale ancora la pena chiedere. Alla ricerca di una casa, di una villa o un palazzo, possiamo trovare ricordi.
Cos’è Pomelasca? Pomelasca è focolare. Inverigo, per chi arriva da Milano percorrendo la SS 36, fa mostra di sé per la posizione dominante: riconosciamo la Rotonda del Cagnola, la parrocchiale di S. Ambrogio, il castello Crivelli con il suo antico borgo. Di Villa Sormani non c’è traccia. Difficile non notare il contrasto, soprattutto se si ha recente memoria della residenza-testamento progettata e fatta costruire dall’architetto Cagnola. Già Stendhal se ne era accorto e, quasi un secolo dopo, gli farà eco Beato Don Gnocchi, altro personaggio fondamentale nella storia del paese e di quella villa: “al centro, alta su ogni cosa e dominante, si levava, come un faro ed un tempio, la cupola classica de La Rotonda”. Quasi come un faro di civiltà in mezzo alla contadina Brianza, Cagnola pensò la sua abitazione come elemento dominante del paesaggio. Villa Sormani, più intima, continua invece a nascondersi al nostro sguardo.
Imbocchiamo, infine, un viale alberato leggermente in discesa. Ed ecco i tigli, antico simbolo di ospitalità: forse siamo sulla strada giusta. Sfuggente, alla nostra sinistra, su quella che poi riconosceremo come cascina Angela, una scritta compare agli occhi del viaggiatore curioso: Tenuta di Pomelasca. Proseguiamo ancora. Non ci sono dubbi: ora riconosciamo il motivo del sorriso che prima avevamo visto nel domandare informazioni.
Che cos’è dunque Pomelasca? Pomelasca è un miraggio custodito dai tigli che mostrano e insieme nascondono villa, cascine, parco e la nota “chiesetta rossa”. Quanto vediamo è frutto del lavoro svolto da otto generazioni di Sormani, che si sono succedute ereditando queste terre.
“Poi, in cima al colle, ecco i cipressi schierati come sentinelle fedeli nella loro impeccabile livrea, ed i bambù che si inchinano gentilmente al mio passaggio”. Sono queste parole, scritte dal conte Alberto Sormani, a guidare l’occhio mentre scopre il paesaggio.
A venirci incontro per prima è la piccola cappella votiva dedicata all’Immacolata, edificata nel 1935 sotto il conte Fernando Sormani. Luogo oggi molto frequentato, soprattutto dagli abitanti di Inverigo che, in cerca di un po’ di verde, si fermano qui a chiacchierare. Tradizione vuole che il disegno della cappella in forme bramantesche e la statua della Madonna siano opera di Ludovico Sormani, figlio di Ferdinando e fratello di quell’Alberto che già abbiamo più volte citato: amante dell’arte – tanto da partecipare ai lavori di restauro
del Santuario della Madonna di Tirano – e artista egli stesso, risiedette a Pomelasca stabilmente, rinnovando, insieme al fratello, il vincolo di cura e attenzione che ha unito i Sormani a questa terra.
Sempre ai due fratelli si deve l’edificazione dell’altro edificio religioso che si mostra grazioso sulla collina: una chiesa in cotto, con forme ispirate al romanico lombardo dei maestri comacini, e opera dell’architetto Ambrogio Annoni. Fatta erigere a partire dal 1951 e da allora simbolo di Pomelasca, la cappella ospita numerose sepolture della famiglia Sormani, tra cui ricordiamo quella di Alberto Sormani, zio dell’Alberto che promosse la costruzione della chiesa, intellettuale e sociologo di fine ottocento noto anche al Carducci. Sottostante alla cappella di famiglia, sorge la cripta, silenziosa custode di molte antiche spoglie.
Una curiosità. La campana della chiesa proviene dal Monastero di San Genesio di Colle Brianza, fusa a Como nel lontano 1330 ad opera di Giuseppe Guajta. La sua presenza qui è legata ad un lieto evento: il 10 settembre 1648 i Sormani furono investiti del titolo nobiliare di Conti di Missaglia e proprio questa campana suonò a festa per salutare i nuovi signori. La piccola collina è, quindi, testimone di quattrocento anni di storia della famiglia.
Prima di proseguire, ci voltiamo per ammirare il cammino percorso: possiamo ancora scorgere un tratto del Viale dei cipressi, villa Crivelli con la sua torre dalle fattezze medioevali, a ricordo dell’antico dominio dei suoi padroni su Inverigo. Proseguendo verso sinistra, compare ancora una volta la Rotonda del Cagnola. Infine, lo sguardo corre veloce fino a incontrare Villa Sormani Andreani Verri, cugini dei Sormani di Missaglia di cui siamo ospiti. Pomelasca, che prima sembrava celarsi alla vista, si mostra in realtà più centrale di quanto avremmo potuto immaginare. Ma Proseguiamo.
Un’elegante siepe di bosso con un filare di platani, contrappunto arboreo al massiccio muro del giardino storico, crea un tunnel che ci guida verso l’ingresso nobile della villa, tradizionalmente separato da quello delle cascine: un’elegante esedra incorniciata da alti cipressi, su cui si aprono due cancelli: uno che conduce al Roccolo e alla Bressanella, entrambi luoghi di svago nobiliare, dove si praticava la caccia agli uccelli, e l’altro che conduce alla storica dimora dei Sormani.
Varchiamo il cancello. Davanti a noi le sobrie linee neorinascimentali della villa rischiano quasi di scomparire, se confrontate con l’imponenza dei due cedri del Libano che affiancano il cancello d’ingresso. Alloro, rigogliose palme, bambù: tutto sembra cospirare contro di noi, impedendoci di cogliere l’insieme della villa e costringendoci in una zona d’ombra. Proseguire è quasi un’impellenza: vogliamo aria e luce. Pochi passi. Usciamo dalla vegetazione. Uno sguardo alla villa e diventa tutto chiaro: un cannocchiale prospettico, sapientemente creato dalle piante del giardino, proietta il visitatore direttamente in un paesaggio di rara bellezza. Il Resegone, le Grigne e tutto l’arco delle Prealpi sembra essersi dato convegno qui, in uno spazio virtuale in cui non vi è più distinzione tra giardino e paesaggio. Una logica rigorosa vorrebbe quasi che non vi siano più contemplato e contemplante, perché tutto è unito nel continuo del sentimento. È l’apoteosi del giardino romantico all’inglese. In una parola: il Sublime. Cosa può l’architettura davanti a un simile spettacolo? È come se la semplicità di questa facciata rispondesse a un imperativo profondo, in linea con l’operato dei Sormani in questo luogo: quello di non opporsi al genius loci, ma di servirlo con dedizione. Ed è proprio la voce dell’attuale Conte Sormani, Antonio Ferdinando, figlio di quell’Alberto Sormani le cui parole ci hanno finora guidato, a distoglierci dalle nostre riflessioni. È lui ad accompagnarci nel giardino all’inglese, caratteristico per l’alternarsi di ampie vedute e vie strette ed ombrose. È lui a indicarci l’acero, il tasso, il bosco di bambù, i cedri, il gingko biloba e un centenario esemplare di sequoia. È lui che ci parla della libreria della villa, luogo molto caro durante l’infanzia, tanto da influenzare le sue scelte professionali.
Più passeggiamo per il giardino tra piante secolari ed esotiche, tortuosi vialetti e oasi di riposo, più comprendiamo come il protagonista assoluto di questa villa sia il paesaggio e come i Sormani non abbiano fatto altro che assecondare, con sapienti scelte architettoniche, gli elementi che appartengono alla felice posizione della collina, da tempo immemore chiamata Pomelasca.
Giungiamo infine alla parte opposta all’ingresso, affacciata a sud-est. Si tratta della zona più intima e soleggiata, separata e protetta da un elegante ringhiera in ferro battuto, a mo’ di hortus conclusus, e in cui è racchiuso un elegante giardino all’italiana. Inaspettatamente, il volume massiccio della villa si trasforma: un piccolo cortile interno crea una struttura particolare, sottolineata dalle due ali laterali che avanzano verso l’osservatore, suscitando un vago senso di protezione.
Qui, due epigrafi e tre stemmi araldici, sintetizzano in modo mirabile la vita della villa, unendo storia e leggenda. In merito alla prima, si raccontano i passaggi di proprietà dai Ciocca ai Da Giussano e da questi ai Sormani, che commissionarono il restauro nelle forme attuali all’architetto Carlo Amati, celebre per aver completato la facciata del Duomo di Milano. E leggenda: si narra che qui, in una lontana primavera, fiorì l’amore tra Alberto da Giussano, mitica figura della lotta contro Barbarossa, e Fiammetta da Pairano.
L’ora è ormai tarda, ma prima di scendere la ripida scalinata che collega villa e cascine, prima di salutare il Conte Sormani, nostra guida in questo percorso, e ripercorrere la strada che ci conduce verso casa, ci vengono ancora in mente, come un monito, le parole di un altro Sormani, Alberto: “sia che prendiate la strada di S. Angelo, sia che scendiate per Ruspo, dopo un po’ rivoltatevi indietro”. Fidandoci, giriamo ancora una volta lo sguardo e quanto da lui scritto sembra rivivere con immediatezza: “tra le rosate dolomie e il sanguigno fiammeggiare del sole inabissantesi dietro ai colli, apparirà al vostro sguardo ammirato la più fantastica tavolozza che mai pittore abbia sognato”.
Danilo Gatti